I messaggi di WhatsApp non valgono come prova nel processo tributario
I dati rimangono solo nel dispositivo senza lasciare traccia
Inutilizzabili i messaggi WhatsApp nel processo tributario in quanto a differenza degli sms i dati rimangono archiviati solo nel dispositivo senza lasciare traccia. Questo quanto si ricava dalla recente sentenza della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia n. 105.01.2021.
La vicenda
Nella vicenda, un contribuente ricorre contro l’Agenzia delle Entrate avverso un avviso di accertamento emesso ai fini Iva oltre a relative sanzioni e interessi per l’anno di imposta 2016.
L’Agenzia afferma che il ricorrente sarebbe l’amministratore di fatto, anche se non di diritto, di una società, poi dichiarata fallita, che avrebbe sfruttato come mero schermo giuridico e che avrebbe utilizzato fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
In tale veste, sostiene il fisco, era stato notificato al ricorrente l’atto impugnato ai fini dell’asserita solidarietà in punto di sanzioni. E la sua qualità di amministratore di fatto sarebbe comprovata da alcuni “i message” scambiati con gli uffici amministrativi della società e i clienti della stessa per definire modalità di consegna e pagamento di alcune forniture.
Messaggi WhatsApp senza concreta fondatezza probatoria
Per il ricorrente, però, vi sarebbe stato un illegittimo utilizzo di tali messaggi, giacchè i vari “i message” asseritamente scambiati dallo stesso, non avrebbero “concreta fondatezza probatoria” non essendo gli stessi confortati da attestazioni di conformità da parte di un notaio o di altro pubblico ufficiale, agli originali che si asseriva essere presenti sul supporto informatico di provenienza.
Per cui, a differenza di quanto affermato dal fisco, i suoi rapporti con la società si sarebbero limitati a quelli conseguenti a segnalazioni di clienti interessati alle forniture, ossia quelli tipici di un semplice procacciatore d’affari.
Di conseguenza l’atto impugnato non avrebbe effetti nei suoi confronti, anche perché ex articolo 7 dl 269/2003, le sanzioni sarebbero a carico della sola persona giuridica senza coinvolgere gli amministratori di diritto o di fatto che siano. Da qui la richiesta di annullamento dell’atto impugnato.
La decisione
La CTP gli dà ragione. I giudici ritengono in via pregiudiziale fondata l’eccezione d’inutilizzabilità degli I message che l’Agenzia chiama a sostegno della propria tesi secondo cui il ricorrente sarebbe stato l’amministratore di fatto della società.
È condivisibile, affermano, quanto sostiene il ricorrente, che per quanto attiene alla tipologia della messaggistica “istant messaging system” come Whatsapp, l’archiviazione degli stessi avvenga esclusivamente sul singolo dispositivo telefonico senza lasciare alcuna traccia a differenza dei comuni messaggi sms, la cui archiviazione avviene attraverso la loro memorizzazione da parte delle compagnie telefoniche.
Dunque, i messaggi WhatsApp avvengono senza un’estrazione controllata e certificata dal supporto informatico che non permette di vantarne la genuinità e di utilizzarli come fonte di prova in sede contenziosa.
Il principio di diritto della Cassazione
Pertanto appare legittimamente applicabile alla fattispecie, secondo i giudici tributari, il principio di diritto della S.C. secondo cui:
“è legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l’istanza di acquisizione della trascrizione di conversazioni effettuate via WhatsApp e registrate da uno degli interlocutori, in quanto, pur concretandosi essa nella memorizzazione di un fatto storico, costituente prova documentale, ex art. 234 cpp, la sua utilizzabilità è tuttavia condizionata all’acquisizione del supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione al fine di verificare l’affidabilità, la provenienza e l’attendibilità del contenuto di dette conversazioni” (cfr. Cass. pen. N. 49016/2017).
In carenza di una loro verificata e dimostrata genuinità, perciò, conclude la Ctp, non può che conseguire l’inutilizzabilità dei messaggi WhatsApp nel procedimento tributario.
Nulla di fatto neanche per l’assunto dell’Agenzia che il ricorrente sarebbe l’amministratore di fatto della società, perché anche qualora i messaggi fossero stati genuini, l’unica cosa che potrebbero provare è l’esistenza di un rapporto di procacciatore d’affari tra il ricorrente e la società, non certo l’influenza completa e dominante nella sua gestione, richiesta all’amministratore di fatto (cfr. Cass. n. 21730/2020).
E in ogni caso, anche laddove fosse provata la qualifica di amministratore di fatto, lo stesso non sarebbe gravato da alcuna responsabilità solidale per le sanzioni irrogate in quanto la legge pone in via esclusiva le sanzioni relative al rapporto fiscale a carico di società o enti con personalità giuridica, salva l’ipotesi di società artificiosamente costituita a fini illeciti.
Fonte articolo: FederPrivacy